La promessa, il voto - a cura di Vanna Pina Delogu
La prummissa
Si tratta di una preziosa testimonianza sull’attività della confraternita di Santa Croce, negli anni intorno alla metà del secolo scorso, e del fervore religioso che accompagnava le sacre manifestazioni della Settimana Santa, alimentato dall’impegno dei confratelli.
Inserita dal professor Andrea Pilo, profondo conoscitore delle tradizioni locali, nel libro "Ammenti di la vidda di tandu (ricordi della vita di allora)", curato dall’illustre professore Nicola Tanda, "La prummissa” va ad aggiungersi ai tanti e cari ricordi del passato che l’autore, sorsense doc, ci ha tramandato.
Questa storia è esemplificativa di innumerevoli altre promesse fatte e mantenute perché sostenute dalla fede e dalla devozione verso la Santa Croce, il cui culto era in passato particolarmente vitale1. Si tratta di un paragrafo che contribuisce a gettar luce sulla vita e sulle attività del sodalizio nel triste periodo della Seconda guerra mondiale.
E proprio la disperazione e l’incertezza sulla propria sorte portano un soldato, che si trova lontano da Sorso, in trincea, attorniato dai corpi dei suoi commilitoni dilaniati dalle bombe, a rivolgere il pensiero alla sua patria, al grande Cristo della chiesa di Santa Croce, e a fare la promessa che, se fosse uscito vivo da quella situazione, avrebbe partecipato alla processione del Venerdì santo, portando, da solo, sulle spalle il calvario, ossia la pesante croce lignea, simbolo della confraternita:
“Cuaddu cant’era mannu, grossu e fosthi drentu a un fossu, cu li granaddi e li bombi farendi a budroni dall’aeroprani e ischuppièndiri tutti in giru ma senza azzisthallu e li cumpagni sasthendi pall’aria cribaddi, ha fattu una prummissa: si da ghistha gherra torru a casa, posthu, a la sora lu caivàriu la dì di vènnari e santu”.
Risparmiato dalla sorte e tornato a casa, quasi irriconoscibile per gli stenti patiti, dopo essersi ristabilito si presenta al priore della confraternita di Santa Croce e gli espone le sue intenzioni. Questi comprende, e gli propone di ripresentarsi il Lunedì santo, giorno in cui gli consegnerà la tonaca ed il cordone di confratello.
E così si avvicina il momento di sciogliere il voto: il Venerdì santo i giudei, due confratelli incaricati del “Discendimento”, hanno deposto il Cristo nella lettiga infiorata, coperta con un velo bianco e attorniata da quattro lampioni. La statua della Madonna dei Sette Dolori con la corona di spine del figlio sul capo, circondata da uno stuolo di angioletti viene avviata verso l’uscita della chiesa.
Il soldato è già posizionato davanti al corteo che esce dal grande portone di San Pantaleo, col grosso calvario ligneo sulla spalla, e senza nessuna protezione per alleviare il peso dell’enorme croce di legno, solitamente trasportata da tre confratelli.
Pregando e senza mai lamentarsi è arrivato, madido di sudore, alla fine della salita di via Capo Corso, circondato dalla gente che conosce il motivo della promessa e mantiene per questo un rispettoso silenzio di fronte alla sua fatica:
“Eddhu era già addananzi cu lu Caivàriu innantu a la ippaddha senza nuddha sottu. Trascinèndiru in mezzu a la triddhìa chi abìa punti chi trappabani è arribiddu in asthu, vizinu a lu Cabu Cossu ch’era tuttu trìscia trìscia e s’è pasaddu aizzaréddhu ma sempri cu lu Caivàriu innantu, prighendi e senza dì oia. La genti, chi sabìa chi lu Caivàriu lu pusthabani sempri dui o tre, l’abbaiddaba senza iscilli un tùnciu. Lu sirènziu affaccu a eddhu era di tumba”.
Si ode solo in lontananza la possente voce dei cantori.
Dietro di lui, che procede ormai con visibile sofferenza e con passo sempre più stanco, si trovano altri confratelli con le scale, la croce chiara di noce, e gli angioletti che tengono in mano le lance, i chiodi, le tenaglie, i martelli. Subito dopo il sacerdote, la madonna, la lettiga, ed i giudei con barba finta e berretto alto a tuba: uno dei giudei indossa una tunica gialla con fascia verde; avvolto da una tunica verde con fascia gialla, l’altro. Vicino a loro il piccolo San Giovanni col calice pieno di amaretti, le pie donne sempre a testa bassa, e la Veronica che regge, tenendolo bene in vista, un grande fazzoletto con l’impronta del Cristo sanguinante.
È quasi notte quando giunge ormai stremato in prossimità della chiesa di Santa Croce; la strada è gremita dalla folla, ma si apre uno stretto varco per consentire il suo ingresso nella chiesa fino all’altare maggiore dove è caduto, ormai privo di forze proprio come Cristo, sotto il peso della croce:
“Era vizinu a geisghia manna, era un bè tasdhu, l’agnureddhiu s’erani drummiddi in brazzu a li mammi e Santa Grozi, e lu pàttiu, pieni che obu, chi no si pudìa mubì nisciunu. Ma gandu hani visthu a eddhu si so daddi a un’ara, è passaddu, tuttu incicciaddu trascinendi caivàriu e anchi, è intraddu ma arribiddu all’asthari maggiori, è caduddu chè cristhu e la genti ippasimadda, s’è pisadda a zicchirri”.
Il sacerdote è allora salito sul pulpito e si è rivolto in dialetto sorsense a Giuseppe d’Arimatea, a Nicodemo ed ai priori di Santa Croce e di Sant’Anna (in origine d’Itria) e ha ordinato loro di procedere all’inserru (sepoltura) del Cristo morto.
Lentamente e con grande delicatezza, circondati dalla commozione generale, hanno prelevato la statua del Cristo dalla lettiga e l’hanno deposta dentro una cassa di legno dipinta, e dopo averne abbassato il coperchio hanno iniziato a dare sopra dei forti colpi per fare rumore. Quest’azione stava a significare che era giunto il momento della Resurrezione, del risveglio di Cristo dal sonno della morte, e che il dolore avrebbe dovuto abbandonare i fedeli per far posto alla gioia.
Il giorno seguente, sabato santo, alla messa solenne delle dieci in San Pantaleo, quando il pievano ha intonato il Gloria, si sono sciolte le campane che erano state legate la mattina del Giovedì santo, dando così inizio alla festa per la Resurrezione di Cristo.
Mastro Filippo, l’ex soldato che aveva attuato la promessa fatta durante la guerra, sia pur con la spalla coperta di piaghe in seguito alla fatica affrontata nel giorno precedente, ha partecipato alla messa e al precetto. Ovunque scoppi di petardi, colpi di fucile in aria, mentre le donne hanno spalancato porte e finestre e battuto sui mobili e dappertutto per “cacciare il diavolo”.
Fonti:
Pilo Andrea, "Ammenti di la vidda di tandu (Ricordi della vita di allora)", introduzione di Nicola Tanda, Editrice Democratica Sarda, Sassari, 2004.
Delogu Vanna Pina, "La Chiesa di Santa Croce in Sorso. Architettura e sacri arredi nella Chiesa dei Disciplinati Bianchi", Documenta, Cargeghe, Gennaio 2013.